Da patrimonio pubblico a ecosistema di beni comuni - Roma, 17/03/2017, Intervento di Stefano Simoncini (ReTer su Vimeo).

"Qual è il valore aggiunto sociale delle realtà associative che utilizzano per le proprie attività gli spazi del Patrimonio comunale, e che tipo di impatti generano nel territorio di Roma?". Ricerca su capitale sociale e patrimonio immobiliare di Roma (CRS - Labis - ReTer).

Premessa e 4 tesi per la conversione del patrimonio pubblico in ecosistema di beni comuni

La premessa riguarda il significato profondo del conflitto in atto. L’ho chiamato “guerra dei commons” non a caso perché sul terreno del Patrimonio pubblico si stanno scontrando due visioni e pratiche della cittadinanza. Una vuole mercatizzare il sociale e un’altra vuole socializzare il mercato, una vuole imporre la logica del valore e un’altra la logica della cooperazione, una vuole privatizzare il pubblico e un’altra pubblicizzare il privato, una vuole appropriarsi e recintare la produzione sociale potenziata dai nuovi media un’altra vuole potenziare socialità e cooperazione in nuove forme di commoning territoriale ed inclusivo. È una guerra e molti di noi non lo sanno. Ma perché questa guerra avviene sul patrimonio? C’era una volta la deregulation e questa deregulation ha generato una moneta con due facce. Da un lato quella cattiva di un sistema di gestione collusivo, specchio dei piccoli e grandi interessi inglobati in un regime urbano fondato su spartizione e rendite, dall’altro quella buona di uno spazio complessivo di autonomia e informalità che ha consentito di far crescere nuove forme di socialità e autoproduzione. Io la chiamo una PAZ involontaria, una permanent autonomous zone, ispirata alla temporary autonomous zone di Hackim Bay, generata dall’informalità stessa e dall’innesto in essa di un troncone dei movimenti. Informalità e lunga durata tollerate dalla deregulation amministrativa hanno consentito a progettualità collettive nate dal basso, che in genere richiedono tempi lunghi e grande libertà, di sedimentarsi e crescere. La cultura dei movimenti ha rotto la logica della concessione esclusiva, quella legata a circoli associativi o di partito, a servizi esternalizzati di una cooperazione frammentata, sperimentando invece usi collettivi che si aprivano al territorio e all’autoproduzione, che sperimentavano nuove forme di cittadinanza inclusiva. Questo è il motivo del conflitto di oggi, il perché profondo di questo accanimento: il patrimonio è diventato un campo pericoloso di sperimentazione di questa nuova forma di relazioni sociali e territoriali che chiamiamo bene comune, è diventato un bene comune tangibile e vivo.

Tuttavia, questo bene comune non si è istituzionalizzato, non si è pensato nei termini di un diritto collettivo, ed ha accettato la convivenza con il non diritto della gestione privatistica, del familismo amorale, della enclosure appropriativa, spesso accettando di difendere i propri margini di libertà con gli stessi strumenti del nemico, accettando la logica della protezione e dello scambio. Diciamoci tutto e diciamocelo bene, perché non si può pensare di vincere questa guerra se non teniamo insieme l’orizzonte di una grande idealità con un terreno di solido realismo su cui costruire una soggettività e una prassi politica coerenti e lungimiranti. Occorre riconoscere che questo dualismo contraddittorio del patrimonio è un pericolo insito nella logica stessa dei beni comuni, in quella loro ambiguità che, indebolendo i regimi dominicali, cioè la classificazione tradizionale della proprietà dei beni, può logorare lo statuto del pubblico a tutto vantaggio del privato, e rappresentare quella variegazione del capitale, quella sussidiarietà suppletiva necessaria ai nuovi assetti polarizzati di società ed economia. Perciò non possiamo continuare a pensare che in nome della feconda libertà di cui abbiamo goduto sia giusto tollerare le sordide libertà di una appropriazione privatistica che ha ingabbiato e sfigurato il valore della nostra esperienza e la sua possibile generalizzazione che convertisse il patrimonio in un bene comune realmente produttivo per la collettività. Oggi il lato oscuro della moneta del patrimonio, quello che a lungo abbiamo tollerato, offre il potente pretesto per una appropriazione generale e sistematica anziché parziale e casuale com’è stata fino ad ora. Perché il dramma è che interessi privati ben più imponenti hanno da tempo fatto breccia nei bastioni del pubblico, e usano la mano pubblica e la legalità formale per prendersi tutto.

Questa la premessa, ma veniamo ai piani che occorre tenere insieme per poter combattere una battaglia non soltanto vertenziale.

Il primo livello è vertenziale e qui occorre essere molto bravi a semplificare, pretendendo che si dissoci il tema della regolarizzazione delle concessioni attuali da quello della regolamentazione di quelle future. Questo perché la confusione dei piani genera due problemi: si allungano i tempi brevi della regolarizzazione attuale con il rischio che la delibera 19 non riesca a fermare le procedure amministrative avviate, e si accorciano i tempi lunghi necessari a definire in modo partecipato un regolamento che sia realmente innovativo e generativo nella logica di conversione del patrimonio in bene comune.

La vertenza in sé presa è molto semplice, e deve mirare secondo me a 3 obiettivi elementari:

  1. sottrarre il pretesto alla legalizzazione selvaggia richiedendo una due diligence delle concessioni che garantisca tutti coloro che svolgono attività socialmente e culturalmente utili e faccia però emergere le appropriazioni privatistiche e restituisca alla collettività gli spazi indebitamente sottratti
  2. stabilire in modo partecipato i criteri della due diligence anche in funzione della definizione dei valori che dovranno strutturare e ispirare il futuro regolamento
  3. pretendere una regolarizzazione che non passi attraverso alcun bando ma preveda l’adeguamento del rapporto concessorio al nuovo regolamento soltanto alla prima scadenza della concessione

Ritengo che questo approccio sia inevitabile in quanto se si pretende una sanatoria integrale, che non è né giusta né praticabile, con la Corte dei Conti che incalza, rischiamo di delegare interamente all’amministrazione la definizione di quei valori che devono informare i criteri di assegnazione e valutazione. Qui è il motivo di questa iniziativa e del suo titolo. Che parte dalla presa d’atto di questa logica ferrea in base alla quale la definizione di un sistema di criteri che molti rigettano è il passaggio obbligato che dobbiamo cercare di orientare e fare in modo di non subirlo, anche per fare in modo di trascendere dalla vertenza alla costruzione di un nuovo sistema nell’interesse collettivo. Molti potrebbero dire che non è compito nostro, che c’è la politica per questo, io dico che la politica e la progettualità oggi vanno espresse dal basso, perché stiamo combattendo la guerra di cui parlavo, e altri pezzi di società altrimenti la determinerebbero.

Quindi occorre affermare una visione di questi criteri concepita non come un sistema creato dall’alto per escludere chi realmente vuole imprimere un cambiamento o peggio per dare una forma legale alla discrezionalità collusiva, ma come un terreno di battaglia per affermare un sistema di valori condivisi che ispirino l’affermazione e il governo collettivo dei beni comuni. Ma per fare questo c’è anche bisogno di impegnarsi sul secondo livello, quello della definizione del regolamento, perché se lo intendiamo in modo procedurale abbiamo già perso.

Dal punto di vista del regolamento dobbiamo pretendere poche cose e molto chiare.

  1. una partecipazione deliberativa e strutturata e non consultiva e improvvisata. Si deve costituire in modo formale un tavolo di partecipazione con amministrazione, parti sociali e parti terze (attivisti, sindacalisti e ricercatori esperti nelle diverse materie in oggetto)
  2. il tavolo deve lavorare principalmente sui due pilastri del regolamento, che sono la definizione dei criteri-valori di valutazione e dell’accessibilità ai beni, e cioè della ricerca del punto di equilibrio tra principio di legalità e principio di informalità. Ciò implica un ragionamento su due questioni spinose: il valore, la funzione e l’impostazione dei cosiddetti criteri di misurazione e la ricerca di alternative al bando che abbiano valore di evidenza pubblica

Ma il punto di caduta per trovare una soluzione a queste due questioni si colloca nel terzo livello di azione che dobbiamo mettere in campo, che è quello della definizione dei processi che devono garantire la conversione del patrimonio in bene comune, tenendo insieme legalità e informalità, concessioni amministrative e usi collettivi. Per fare questo occorre fare un salto di scala nella concezione del Patrimonio e guardarlo non più dal punto di vista della procedura per la singola concessione ma come leva per mettere in moto un generale cambiamento nel modello di sviluppo della città. Per arrivare a fare questo la riflessione si deve spostare l’attenzione dalla procedura e dal sistema di misurazione dei singoli progetti alla costruzione di una politica che abbia cognizione di come produrre questo rescaling del patrimonio fondato su 3 principi:

  1. mettere in atto processi partecipativi che non riguardino il singolo spazio ma la definizione di progettualità più ampie
  2. individuare i modelli di riattivazione più produttivi e coerenti con i principi dei beni comuni e non escludano forme di nuove economie collaborative e solidali
  3. concepire una nuova modalità di valorizzazione che passi dalla valorizzazione frammentata e per parti a una valorizzazione olistica e in rete, che deve necessariamente far leva su infrastrutture digitali da accoppiare alle infrastrutture materiali

Quest’ultimo punto è decisivo, perché i digital commons non sono solo altre categorie di beni comuni, ma consentono di trasformare la qualità dei beni comuni materiali potenziando le interazioni partecipative e la portata della cooperazione. Perciò una piattaforma come ambiente interattivo che metta in rete tutti gli spazi riattivati significa sostanzialmente due cose: aumentare le possibilità di condivisione degli spazi, e quindi il loro carattere di beni comuni, e generare effetti di rete imprevedibili nella condivisione di progettualità, competenze, servizi.

Ma c’è anche un ultimo livello, che riguarda la necessità di non guardare esclusivamente al perimetro delle destinazioni già definite del patrimonio, in quanto ci sono altri che non lo fanno e rischiamo di concentrarci su questo perimetro e di spuntare regolamenti meravigliosi quando poi ci passa sopra la testa il treno di privatizzazioni e trasformazioni che smantellano i beni comuni veri, quelli che contano, per lasciarci le briciole e i giochi da tavolo. Lo si capisce bene se si guarda a cosa sta accadendo a ex Dogana e Forlanini.
Allora bisogna pretendere che il patrimonio sia considerato nel suo insieme e che ne siano definiti nell’insieme, anche a livello nazionale, dei principi di gestione generale, che contengano almeno questi principi:

  1. che si mettano in atto processi di standardizzazione e messa a sistema della valorizzazione sociale come avviene per la messa a sistema delle valorizzazioni immobiliari (clusterizzazione, creazione di fondi immobiliari territoriali, sussidiarietà verticale)
  2. che si definiscano nell’insieme le destinazioni con meccanismi di partecipazione orientando ogni decisione all’interesse del territorio e subordinando le dismissione alla creazione di fondi per la riattivazione degli spazi valorizzati socialmente
  3. che vi sia partecipazione anche nelle trasformazioni complesse e non soltanto nella definizione di singole assegnazioni.